In seguito all’emergenza Coronavirus si è iniziato a parlare sempre più spesso di smart working, un termine che dovrebbe indicare il lavoro eseguito nell’ambiente domestico, nella propria abitazione. Ma è proprio così?
Smart working e home working in realtà NON sono due facce della stessa medaglia né due modi di esprimere lo stesso concetto.
Il primo è una filosofia manageriale fondata sulla possibilità di restituire al lavoro flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati.
I pilastri fondamentali sono: revisione della cultura organizzativa, flessibilità rispetto a orari e luoghi di lavoro, dotazione tecnologica e spazi fisici.
Lo smart working quindi non è un inglesismo per definire il tele lavoro, quest’ultimo, chiamato anche home working, è ciò che abbiamo vissuto durante questa emergenza sanitaria, quando ci è stato chiesto direstare a casa; purtroppo tale tipo di lavoro svolto solamente tra le 4 mura domestiche a volte è risultato poco efficace e ha creato alcune difficoltà.
Se da un lato la maggiore autonomia ha favorito al lavoratore un certo senso di appagamento, ha reso però difficile il work life balance (equilibrio tra vita privata e lavoro).
Vivere in continuità lo spazio domestico e la necessità di adattarlo a molteplici funzioni durante la giornata, a volte, ha dato origine alla sensazione di vivere in una casa che scoppia, la camera da letto è diventata un ufficio, il salone un’aula scolastica ed eccoci a un passo dal caos.
Optare per una tipologia o un’altra, dipende dalle reali esigenze delle parti coinvolte, lavoratori e azienda, e dalla natura delle attività lavorative.
Smart working e tele lavoro rappresentano due modelli culturali di organizzazione del lavoro differenti ma in entrambi i casi ciò che conta è il raggiungimento del risultato concordato.